COME ERAVAMO

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DOVE ERAVAMO

lunedì 1 ottobre 2007

ARMAGEDDON

per tutti quelli che ritroveremo per quelli rimasti indietro per chi ha dato tutto nessuno sarà dimenticato A Monaco ti sia lieve la terra Armageddon Cronaca dell’Apocalisse in una notte di mezza estate L’unico modo per ricordare chi è andato via combattendo fino all’ultimo L'Armageddon o Har-Mageddon (in greco αρμαγεδδων) indica la battaglia finale tra i re della terra (incitati da Satana) e il Dio dei cristiani, tra il bene e il male di cui si parla nell'Apocalisse, nel Nuovo Testamento, oppure, più genericamente, indica una catastrofe apocalittica. Il termine viene spesso usato per indicare la battaglia in sé oppure, nella sua accezione più estesa, l'Apocalisse stesso. Il termine Armageddon nella Sacra Scrittura compare in un solo verso del Nuovo Testamento, nel Libro dell'Apocalisse16,16, dove si dice sia un termine ebraico, ma si pensa che esso derivi dalle parole ebraiche Har Megido (הר מגידו), che significa "la collina di Megiddo". Megiddo era il luogo di molte battaglie decisive nell'antichità'. Esterno notte – lo scontro finale Protagonisti: Vincenzo Mirenzi detto Monaco Kan Marco Agliata detto l’assistente Valter Cimino detto ciccio Valter Di Dio detto scossa Marco Vitali detto killer Enrico Musy detto roscio Gianni Paoloni detto Polansky e forse c’era anche qualcun altro, ovvero: non si è mai abbastanza per morire. Nella descrizione degli eventi che seguiranno il lettore deve sapere che c’è una soglia, nell’animo umano, superata la quale le cose non sono più le stesse; è la soglia che separa il mondo conosciuto da quello ignoto che può riservare spaventose scoperte poiché, come diceva F. Dostoijevsky, “quelli che vanno sempre all’ultimo confine, passano sempre il limite”. Una leggera brezza soffiava tra le tende, quella notte la calma sembrava essere ovunque anche se dopo cena erano stati percepiti strani flussi di energia intorno alla vecchia mensa che quell’anno, siamo nel 1975, era ancora funzionante; nessuno però aveva dato peso a questo annuncio di quella che possiamo certamente annoverare come la notte dell’Apocalisse o dei morti viventi, senza alcun riferimento agli zombie deambulanti ma al fatto che quello che doveva essere, per coerenza con le più elementari leggi della fisica e della dinamica dei corpi, un vero e proprio massacro reciproco, annoverò alla fine degli eventi soltanto alcuni feriti lacero contusi (solo leader, ovviamente). La vecchia mensa aveva una pianta a T con il lato lungo destinato allo spazio per i tavoli e il lato corto (a due piani) che aveva al piano terra la cucina, la dispensa e lo spaccio e al piano primo le stanze per i cucinieri e manutenzione con il bagno. Finite le attività notturne i campeggisti andarono a dormire ignari di quegli accadimenti che di li a poco avrebbero cambiato per sempre la vita di molte persone portandoli sull’orlo dell’abisso, dell’irrimediabile, sulla via del non ritorno e consentendogli di tornare indietro: per un breve momento i protagonisti videro aprirsi le porte dell’Apocalisse. Quella notte “ho visto cose che voi umani non potreste immaginare... navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire... Unità NEXUS6 Roy Batty N6MAA10816 Ment.LEV A.” Tra poco capirete a cosa Ridley Scott si è ispirato per il film Blade Runner. E’ strano, a volte, come le cose apparentemente più innocue e insignificanti possano da sole aprire le porte al Maligno e trasformare il più banale dei problemi nell’occasione suprema per la devastazione delle coscienze. Al campeggio, una cosa è stata sempre custodita con la massima cura e attenzione ed era la salute e l’incolumità dei campeggisti, bene supremo che veniva affidato a noi, tutori temporanei, di ragazzi che erano parte integrante della nostra vita. Qualunque cosa e chiunque avesse costituito una minaccia sarebbe stato annientato e Monaco, su questo, era intransigente: stato defcom 1, guerra temonucleare globale. Una delle aree di sosta preferite per i raduni serali dei leader dopo le attività appena concluse era sempre intorno alla vecchia mensa, c’era lo spaccio, il campo di bocce e altri luoghi che ispiravano serenità. Tra una chiacchiera e l’altra il tempo sembrava scorrere leggero e Monaco era seduto sulla porta laterale dello spaccio, in ulteriore ombra, fumandosi beato il suo inseparabile toscano, noi intorno discutevamo del più e del meno; immprovvisamente dall’angolo destro della mensa un minuscolo topo sguscia tra le gambe di Monaco, si infila sotto la porta della cucina entrando, senza permesso, nel santuario del Direttore. Non poteva esserci affronto peggiore. Non solo veniva violato il luogo sacro per eccellenza, lo si faceva sotto i baffi di Monaco e con rischio per la dispensa e quindi violazione dei sacri beni dei campeggisti: era troppo per un topo solo. Subito fu chiaro che quella notte non sarebbe rimasta una data anonima nello spazio-tempo. Tutto sommato la prima reazione fu abbastanza riflessiva: il locale più vicino alla porta, prima delle cucina era la dispensa e se la mensa era il santuario di Monaco, la dispensa era la sua sacrestia, lì erano custodite le cibarie per tutti ma soprattutto per i ragazzi. La porta fu aperta subito e alla prima ispezione si capì che il topo si era attestato nella dispensa e Monaco, come il generale Patton ordinò di armarsi immediatamente. Considerando lo spazio angusto i primi strumenti di intervento rapido furono delle scope con le quali si cercò di organizzare sistemi di assalto su percorsi predeterminati in cui, a gruppi di due, uno spostava o alzava scatole e sacchi e l’altro era pronto a colpire; il che in un locale di 10 metri x 10 poteva essere una buona strategia ma in uno spazio di 3 metri x 3 si rivelò una trappola mortale. Già c’era una prima gerarchizzazione tra chi aveva la scopa (e con essa la licenza di uccidere) e chi faceva da sherpa, ma lo squilibrio fu evidente quando cominciarono i primi avvistamenti perché chi spostava le cose o teneva i sacchi e scatole varie (cercando di non farle cadere) era ovviamente sulla linea di fuoco di almeno 4 tiratori, con le mani occupate, in balia dei colpi che arrivavano da tutte le parti. Furono operati vari cambi di formazione e strategie ma il risultato finale era sempre lo stesso: c’era sempre qualcuno pericolosamente esposto al fuoco (e non è una parola fuori luogo). Si cominciava ad avvertire un livello di tensione in salita. Due, tre avvistamenti a vuoto e giù botte da orbi. Porta rigorosamente chiusa per non fare troppo rumore e non “disturbare i campeggisti”; temperatura interna in lieve aumento. Marco V., approfittando di un momento di distrazione, assestò una poderosa mazzata che stese tre persone, inutile dire che un momento dopo fu sepolto dalla grandine divina. Nei colpi di ritorno la lampadina del soffitta fu colpita più volte cominciando a dondolare e creando strane luci e ombre e rendendo ancora più difficile centrare il bersaglio (dove finissero i colpi a vuoto potete facilmente immaginarlo, sulla testa di qualcuno in traiettoria), altri assalti a vuoto e la netta sensazione che prendere il topo fosse diventato un problema relativamente importante perché ormai gli avvistamenti erano chiaramente provocatori. Il topo dimostrò doti incredibili perché fu visto sulla testa di uno, sulle spalle di un altro, sotto il cavallo dei pantaloni di qualcuno e sulla faccia di un quarto. Non c’era più possibilità di fermare nulla, a ogni avvistamento l’obiettivo veniva puntualmente centrato da una scarica di mazzate prima che si potesse verificare la veridicità del fatto (nel dubbio, mena). Il trambusto saliva e ci fu un primo momento critico quando qualcuno avvistò il topo sulla testa di Monaco che ebbe solo il tempo di gridare: nooooo!!!!, prima di essere sepolto dai colpi; quello fu il momento di svolta perché per difendersi Monaco attaccò a testa bassa (in quel momento c’erano una decina di persone scatenate in 3 metri quadrati di spazio) roteando la scopa come un vecchio samurai e gridando: BANZAIIIIIII !!!. Chi era sulla linea di fuoco fu più pronto di lui e si tolse all’ultimo momento e lasciando il povero direttore schiantarsi contro uno scaffale: lo schianto fu tremendo ma ancora di più lo fu il rantolo che usci dalla sua bocca quando lo scaffale gli crollò addosso. Fu salvato in tempo dal seppellimento ma dovette difendersi da altri attacchi laterali (al peggio non c’è mai fine) utilizzando la scopa come ultima difesa e il manico si spezzò in due. Ripresa la posizione e l’orientamento costrinse tutti a un minuto di pausa “per riordinare le idee” perché, affermò: qui ci vuole “metodo” e con il suo ghigno subdolo si diresse verso la porta per prendere aria, così sembrò ai più e così lui lascio credere. In realtà andò in un baleno verso la direzione dove afferrò la mazza da baseball e si ripresentò un secondo dopo chiudendo la porta dietro di lui come il Clint Eastwood dei tempi migliori: non servì la musica per capire cosa sarebbe successo un attimo dopo. Sollevò l’arma (ormai era chiaro che nei fatti e nelle intenzioni quella era un arma a tutti gli effetti) e al grido di “Ricordate Alamo” puntò il primo malcapitato facendo partire un colpo che si schiantò sullo scaffale mentre finiva con il piede in un’improvvisata trappola per orsi (cappio con nodo scorsoio) allestita al volo da Valter C. e che lo fece crollare a terra. Il Maligno, intanto, osservava incuriosito e ammirato da tanto impegno per morire. Si andava a defcom 3 – luce gialla, primi scontri diretti mortali. Non c’era più nemmeno bisogno di simulare falsi avvistamenti e soprattutto non si facevano prigionieri; dopo un momento di smarrimento si ricomposero le fila e si formarono i primi gruppi e si approntarono le prime difese, ma, soprattutto vennero riviste le strategie: niente accerchiamenti, non c’era spazio, meglio l’attacco diretto. Ogni tanto qualcuno, simulando ferite, per nulla improbabili, usciva dalla porta per farsi soccorrere dalle premurose leader che avrebbero tamponato le presunte lacerazioni; in realtà fu subito chiaro che era una scusa per cercare nuove armi e così il problema per quelli che stavano dentro diventava non tanto controllare in che condizioni si trovasse il presunto ferito (in quel momento la cosa non aveva nessuna rilevanza) ma con che cosa sarebbe rientrato poco dopo. Un raro, autentico, avvistamento sembrò poter ricondurre il tutto alla “normalità” ma anche questa volta il bersaglio fu mancato e venne centrato un cacciatore con la mazza da baseball di Monaco – la reazione fu violenta e Monaco, mentre veniva disarmato, estrasse la pistola e sparò due colpi verso l’aggressore che solo dopo essersi rimesso in piedi, senza nessuna fontanella di sangue, capì che si trattava dell’inseparabile scacciacani del direttore e non della 44 magnum dell’ispettore Callaghan. La mazza da baseball fu subito restituita. Distratti dagli ultimi eventi i gladiatori non si erano resi conto della dotazione in armi a quel punto della serata: racchette da ping pong, 2 badili, una fionda, due fili elettrici in tensione (con cui Valter d. cercava di fulminare qualcuno), remi e altre amenità. Il Maligno non poteva restare insensibile a tanta mirabile energia negativa. Lo scontro successivo portò lo stato generale a defcom 2 – luce arancione, estensione degli ingaggi. E il livello fu subito onorato perché Enrico si presentò con un piccone che però non riuscì ad usare perché Monaco, come “IL VENTO DIVINO” si scagliò su di lui non consentendogli di caricare l’arma; ormai niente aveva più senso, anche le arti marziali persero efficacia negli spazi ridotti. Il problema non era e forse non era mai stato prendere il topo ma fino a che punto le posizioni sarebbero state tenute, fino a dove si sarebbe spinto lo scontro e, soprattutto, chi avrebbe imboccato la porta per primo lasciando agli altri la vittoria sul campo. Si poteva certamente entrare ma nessuno doveva uscire vivo di lì fino al compimento della missione. Gianni Polansky nel frattempo era montato sul frigorifero dello spaccio e da sopra il divisorio con la dispensa faceva arrivare dall’alto mazzate con un remo che sorpresero molti malcapitati che non avevano considerato la terza dimensione. Grande scuola di dottrina e pratica applicata fu il campeggio per molti di noi. Suonarono le trombe dell’Apocalisse. In effetti fu percepito un debole suono, forse un ronzio ma i più lo considerarono come effetto collaterale dei colpi ricevuti. Il livello defcom 1 – luce rossa, guerra termonucleare globale fu raggiunto quando uno dei colpi, non raggiungendo un obiettivo specifico, finì su un sacco della farina che esplose inondando l’arena di una nebbia fittissima. Quello fu il momento in cui l’Apocalisse prese una forma reale e si manifestò in tutta la sua drammaticità. Ora il nemico non poteva più essere visto, bisognava intuirlo e, in questo corso accelerato di meditazione zen, si doveva essere bravi e rapidi allievi per non restare mortalmente bloccati al primo livello di apprendimento. La Morte arrivava dal nulla, “ahi dura terra, perché non t’apristi”. Nella nebbia ho visto (si fa per dire) Monaco sbagliare bersaglio e colpire un proprio – presunto – alleato che, schiantandosi a terra, lo trascinava con lui; altre ombre si avventarono su una povera leader che cercava di trascinare fuori i feriti più gravi: DOVEVANO restare tutti dentro fino alla fine, ormai prossima. Se il cibo dei campeggisti andava difeso, noi quella notte onorammo la nostra missione: “mancò la fortuna, non il valore”. Chi può dire se dietro quella furia omicida ci fossero meandri dell’inconscio inesplorati e non risolti, antichi rancori o, peggio, lucida follia; non lo sapremo mai. Figure irreali si aggiravano barcollanti, era chiaro che ci stavamo avviando all’estinzione ma nessuno sarebbe uscito di lì senza il corpo del topo perché bisognava dare un senso a tutto questo; in effetti non abbiamo mai capito come la bestiola fosse sopravvissuta all’Apocalisse, ma così fu – fino a quel momento era stato l’unico superstite effettivo. Atti di estremo sacrificio e indimenticabili momenti di gloria si susseguirono senza nemmeno essere colti nel loro pieno manifestarsi, ad un certo punto, tirando giù uno scaffale contro il sopraggiungente Enrico, Valter C. disse: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare, frase molto eloquente e resa ancora più incisiva dallo schianto dello scaffale sul malcapitato. Come l’esercito russo nella battaglia di Borodinò non indietreggiò di un passo di fronte all’esercito invasore di Napoleone, così nessuno di noi avrebbe mai abbandonato il campo. Un po’ infarinato anche lui, forse approfittando del caos e della nebbia, il topo tentò una sortita, un’improbabile fuga verso la libertà e ancora, per la seconda volta, scelse le gambe di Monaco come viatico; con l’occhio felino il più grande dei Direttori saltò lievitando nell’aria con energia impensabile e la rinnovata furia di Gengis il Grande, perché questo affronto era troppo, perchè lui era il più grande dei samurai, perché quello era il momento della resa dei conti e perché si rese conto che il destino aveva assegnato a lui il colpo reale e non poteva farselo sfuggire. Non fu un colpo, fu uno schianto con grido assassino di rinforzo. Ancora oggi a distanza di tempo quando ripenso a quei visi infarinati e distrutti dalla stanchezza ma che non avrebbero fatto un passo indietro per nulla al mondo, mi chiedo come fu possibile uscire tutti vivi e sostanzialmente integri dalla Madre di tutte le Battaglie. Avevamo visto in faccia l’Apocalisse, ancora una volta sulla collina di Megiddo era stato combattuto l’epico scontro tra il Bene e il Male e ancora una volta il Bene aveva trionfato; che cosa è stato di quei valorosi guerrieri che onorararono la loro missione senza un attimo di incertezza, anche a costo della loro stessa vita. Le gesta più gloriose di quella notte sarebbero andate perdute per sempre e forse sarebbe successo, come spesso accade che “ il male che gli uomini fanno vive dopo di loro mentre il bene viene spesso sepolto con le loro ossa”. Era giusto ricordare il loro quasi estremo sacrificio e tramandarlo alle giovani generazioni come esempio, monito e giusta celebrazione del grande e indimenticabile condottiero Monaco Kan che per tanti anni fu custode, pur soffrendo di un male impietoso, di un’isola felice che accolse la vera, meglio gioventù. La breve e silenziosa cerimonia funebre fu caratterizzata da sentimenti contrastanti, fra tutti prevaleva certamente la sorpresa di essere, sia pure malridotti, ancora vivi, sull’improvvisata lapide del topo fu scritto: “l’ultima scopata gli fu fatale”. Nessuno poteva sapere quale sarebbe stato il nostro futuro, dove sarebbero andati i nostri sogni, stavamo vivendo degli anni irripetibili ma sapevamo con certezza che quel tempo non sarebbe più tornato. Guardandoci l’un l’altro e osservando lo sguardo impietrito di chi si era salvato dall’Apocalisse dopo aver visto in faccia il Maligno, ci rendemmo conto che la morte, per quella volta, era passata molto vicino a noi senza pretendere un tributo pesante e questa fu, se c’era ancora bisogno, l’ulteriore dimostrazione che in quel posto, alla fine di tutto, il Bene è sempre stato ricambiato con il Bene. Ricordate Alamo e non tutto andrà perduto.

1 commento:

Anonimo ha detto...

sarebbe bello avere qui "il vostro Monaco"
io ho voluto ricordarlo ricostruendo questo frammento nel modo che mi ha sempre legato a lui. Nei momenti peggiori, quando la fine si avvicinava, ha sempre detto che quel posto era magico e gli aveva allungato la vita. Purtroppo noi sappiamo che oltre alla diagnosi sbagliata furono le fatiche di quelle estati passate lì a lavorare "per non lasciare soli i ragazzi" ad accelerare la fine.
Indimenticabile